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Quando nel 1605 Francis Bacon introdusse il termine “eutanasia” nel vocabolario dei paesi occidentali, utilizzandolo nel saggio “Della dignità e del progresso del sapere umano e divino”, il filosofo inglese non intendeva con questo indicare la volontà del medico di “dare la morte” ad un malato, quanto piuttosto la volontà di far sì che al malato spettasse una “buona morte”, così come da etimologia, e non dolorosa 4 .
Almeno tre importanti riflessioni sono collegate al concetto del “fare una buona morte”:
Riguardo la prima domanda, secondo me il dolore esiste per due motivi fondamentali.
Il primo, per ricordarci che la nostra condizione di vita è sempre “umana” e quindi vulnerabile.
Secondo, per prepararci in qualche modo a vivere il “dolore supremo”, il distacco finale dalla vita a cui siamo “attaccati” fin da quando eravamo nel grembo materno.
Il dolore, dunque, è un “ricordati che sei umano e ricordati quanto è importante la salute!”, ma anche un sorta di “tirocinio pratico” sulla capacità di distacco dalle cose terrene.
Il tratto saliente del dolore è la sua estrema soggettività.
Nessun dolore, come anche nessun lutto, è uguale ad un altro, perché ognuno di noi soffre in modo diverso, interpretando e vivendo il dolore in modo totalmente soggettivo.
A proposito invece della seconda domanda, credo che siano possibili due tipi di risposte, una religiosa e l’altra laica.
Per chi ha il “dono” della fede, la morte e la sofferenza assumono significati del tutto diversi da chi ha una visione laica della vita.
Nel primo caso, c’è la serena accettazione della volontà di Dio e del suo comandamento che ricorda il peccato di togliersi la vita.
Nella seconda situazione, le reazioni sono del tutto soggettive: c’è chi resiste e va avanti imbottito di farmaci sempre più potenti per lenire i dolori, chi supplica qualcuno di staccare la spina, sentendosi una vittima dell’accanimento terapeutico nel momento in cui non viene accolta la sua volontà e chi invece non sa letteralmente cosa fare.
Io credo che il principio guida da seguire in ogni caso sia:
rispettare la volontà di ogni persona, dandole quello che chiede, in base alle sue convinzioni, senza avere pregiudizi o esprimere giudizi morali su una decisione che deve riguardare solo l’individuo.
Penso che ognuno abbia il sacrosanto diritto di fare della propria vita quello che vuole, senza ledere ovviamente quella altrui.
Non è certo facile, in situazioni di estremo dolore, prendere decisioni e soprattutto assumersi la responsabilità di staccare una spina, ma il punto è proprio questo.
Il “gesto dell’eutanasia” non pone fine alla vita ma soltanto ad un dolore immenso, insopportabile, angosciante per la persona che lo prova ed anche per tutte le persone care che le sono intorno.
A cosa serve prolungare la sofferenza di chi non ha credenze religiose?
Perché accanirsi contro un qualcosa che comunque è e sarà sempre più grande di noi?
In ogni caso, valga per tutti – anche per i suicidi – la “Preghiera in gennaio” di Fabrizio De Andrè
Lascia che sia fiorito, Signore, il suo sentiero Quando a te la sua anima e al mondo la sua pelle dovrà riconsegnare.
4 Redazionale del giornale E Polis Roma del 22 dicembre 2006, “Ispirati dalla dolce fine”.
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