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Il primo giorno di lavoro, il mio capo mi raccomandò due parole chiave a cui avrei dovuto attenermi in ogni momento: proattività e assertività.
Per me che venivo da esperienze professionali saltuarie negli ambienti del giornalismo e dell’università, rappresentavano entrambe un’incognita.
Per evitare di sembrare impreparato, per prima cosa annuii.
Subito dopo, cercai di capire quale fosse il loro significato.
La proattività fu di quasi immediata comprensione: ben presto mi fu chiaro che per lavorare in un’organizzazione che aveva molti interlocutori e in cui mi veniva richiesto di gestire parecchie relazioni aziendali, dovessi avere iniziativa, formulare proposte concrete, proporre soluzioni.
In poche parole, saper cogliere tutti i segnali del contesto per giocare d’anticipo.
Impiegai un po’ di più a capire cosa si celasse dietro il termine assertività.
Il miglior modo per conoscere appieno il significato di una parola, è quello di affidarsi all’etimologia. In questo modo, vediamo che il termine “assertività” deriva dal latino assertus, participio passato di asserĕre, verbo che significava “asserire”, dunque dichiarare con certezza, affermare, sostenere.
Asserĕre era un “termine di uso giuridico e aveva il significato iniziale di «dichiarare libero uno schiavo o rivendicarne il possesso». Nel tempo, già nella lingua latina, il termine aveva assunto il significato traslato di 'dichiarare con certezza', tanto che ancora oggi, ad esempio, nel linguaggio del diritto 'asserire qualcosa in giudizio' vale a dire 'vantare una pretesa in un processo' (Sabatini-Coletti 2008)”.
Il linguista Niccolò Tommaseo, già nel suo Dizionario della Lingua italiana, il più importante dell’Ottocento, definiva “giudizio assertivo” quello “che non pronunzia secondo la piena evidenza, ma scevro d’ambiguità”.
Nella lingua italiana, il termine appare per la prima volta con Giovanni Boccaccio, nell’Elegia di Madonna Fiammetta:
“Già s'era, senza più favellarmi, partita la cara balia, li cui consigli male per me rifiutai, e io, sola rimasa, le sue parole nel sollecito petto fra me volgea; e ancora che abbagliato fosse il mio conoscimento, di frutto le sentiva piene e quasi ciò che assertivamente avea davanti a lei detto di voler pur seguire, pentendomi, nella mente mi vacillava, e già cominciando a pensare di volere lasciare andare le cose meritevolmente dannate, lei voleva richiamare alli miei conforti”.
Fiammetta è innamorata del mercante Panfilo.
Il loro amore si interrompe quando lui, per lavoro, parte da Napoli (la loro città) per andare a Firenze.
Giunge a Fiammetta la notizia che Panfilo ha iniziato un’altra relazione con una donna fiorentina, facendo venir meno la loro promessa di fedeltà.
Secondo alcune voci si sarebbe addirittura sposato.
Lei è disperata e intenzionata al suicidio.
La salva la nutrice, a cui Fiammetta aveva espresso il proposito di porre fine alla propria esistenza.
Lo aveva espresso, scrive Boccaccio, “assertivamente”: senza avere timore del proprio sentimento e senza nascondere le proprie intenzioni.
E questa “assertività” porta in sé, pur in un proposito così tragicamente assoluto, l’apertura all’ascolto, alle argomentazioni altrui: è grazie ai “conforti” della nutrice alle “sue parole nel sollecito petto” che Fiammetta non cede alla disperazione e non si dà la morte.
Già leggendo Boccaccio e il suo utilizzo di questo termine, riusciamo a cogliere il significato e la complessa valenza di questa parola.
Assertivo è, prima di tutto, chi ha la capacità di sostenere le proprie idee e dare voce ai propri sentimenti.
E sa farlo nel pieno rispetto dell’interlocutore. Tuttavia, il termine italiano “assertivo” non ha mai avuto, nei secoli, grande successo.
E’ tornato in auge solo nella seconda metà del Novecento a seguito dell’anglosassone “assertive”, il cui significativo utilizzo è stato dovuto agli studi statunitensi di psicologia dove è stato largamente impiegato.
Tra questi, il primo importante contributo è dello psicologo Andrew Salter.
Non è uno studio verticale sull’assertività (il termine “assertive” non compare nemmeno) ma è fondamentale allo sviluppo di questo concetto.
Dopo aver approfondito a lungo la teoria del “riflesso condizionato” del medico russo Ivan Pavlov (a cui valse il premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia nel 1904), Salter scrisse il saggio Terapia del riflesso condizionato, pubblicato nel 1949, in cui sosteneva che il bambino che viene punito in modo pesante o ripetuto in relazione ai suoi comportamenti sociali, da adulto può sviluppare una personalità socialmente inibita che rappresenterà il suo ostacolo alle relazioni interpersonali.
Come contrastare questa possibile inibizione e favorire invece l’apertura? Salter offre alcuni consigli nell’educazione del bambino che corrispondono a quelli che saranno delineati come i principi dell’assertività.
In particolare, nell’educazione del bambino, suggerisce di abituarlo a:
Questi consigli che lui dà, come vedremo in seguito, sono alla base dell’assertività.
Tuttavia, in questo studio, Salter ancora non parla di assertività.
Il primo a utilizzare questo termine è invece lo psichiatra Joseph Wolpe nel 1959: “Assertion” è per lui la manifestazione, da parte di un individuo, di uno stato d’animo rilassato, privo di ansia.
L’assertivo è colui che sa leggere il contesto e comprende come comportarsi nelle diverse situazioni.
In quegli stessi anni, George Kelly, pedagogista americano, elabora la “Psicologia dei Costrutti Personali” in cui dimostra la molteplicità quasi infinita nelle interpretazioni della realtà da parte di ogni individuo nelle diverse situazioni.
Considera l’ansia come uno dei principali elementi (li definisce “transizioni”) che ci porta a cambiare i punti di riferimento nell’interpretazione di quanto accade e come stato d’animo che ci ostacola nella relazione interpersonale, impedendoci, alla fine, di essere assertivi.
Il primo studio verticale sull’assertività è di Libet e Lewinson (1973) che la definiscono come:
“La capacità del soggetto di utilizzare, in ogni contesto relazionale, modalità di comunicazione che rendano altamente probabili reazioni positive dell'ambiente e annullino o riducano la possibilità di reazioni negative”.
Sono questi due autori a descrivere, nello specifico, alcune delle caratteristiche principali dell’assertività.
Robert Alberti, in un suo primo studio del 1977 ed in un successivo saggio scritto a quattro mani con Michael L. Emmons, Essere assertivi.
Come imparare a farsi rispettare senza prevaricare gli altri (2003) , ci offre consigli pratici su come esercitare l’assertività nei casi in cui non risulta facile trovare un modo di reagire appropriato.
Ad esempio: come dire ad un vicino di casa che la sua musica alta ci infastidisce?
Oppure, come rispondere ad un collega che ci fa fare una pessima figura in una riunione o in un open space?
In queste situazioni possiamo aggredire l’altro passando dalla parte del torto oppure subire in modo totalmente passivo reprimendo la collera.
Tra questi due estremi, l’assertività rappresenta la via di mezzo o la necessaria modulazione: farsi rispettare dicendo ciò che si pensa ma nel rispetto dell’altro.
Questo approccio ci consente di vivere meglio i nostri rapporti, da quelli professionali a quelli familiari e di coppia.
Per crescere nello sviluppo dell’assertività, una delle modalità più utilizzate nella Formazione e nei percorsi di miglioramento personale, è quella del “role play”: rappresentare una situazione-tipo reale utilizzando la metafora del teatro.
Questo consente alle persone in gioco di sperimentarsi in modo “verosimile”: non è la realtà ma è “come se lo fosse”, perchè di vero ci sono gli stili comunicativi degli “attori”, le loro emozioni e i loro stati d’animo su cui si può lavorare dall’esterno, attraverso riscontri e indicazioni provenienti da un “tecnico” esterno e in autovalutazione.
A contribuire a questa metodologia sono stati gli studi di Arnold Lazarus (Behavior Therapy and Beyond, 1971) e di Albert Bandura (Social Learning Theory, 1977; Social Foundations of Thought and Action, 1986). Arnold Goldstein, per molti anni docente di Psicologia alla Syracuse University, nei primi Anni ’80 del secolo scorso sostenne come anche le difficoltà di apprendimento potessero derivare dalla mancanza di assertività.
Esercitarsi nell’ascolto dell’interlocutore, nell’esprimere i propri dubbi e le proprie perplessità, nella risposta alle critiche, può aiutare lo sviluppo di questa abilità.
Date queste premesse, chi è l’assertivo?
Potremmo definirlo come colui che mette se stesso e le proprie competenze a disposizione del gruppo, promuovendo un clima sereno: sa ascoltare gli altri nel profondo, riuscendo a comprendere i loro punti di vista, anche se molto diversi dal suo.
Al tempo stesso, sa esprimere le sue opinioni, argomentandole con chiarezza, anche e soprattutto quando sono discordanti.
Assolve i propri impegni e doveri con piena assunzione di responsabilità ed esige rispetto di sé, difendendo anche con forza i propri diritti ma senza aggredire o manipolare.
Nell’affermazione dei propri diritti e delle proprie idee, l’assertivo dimostra intelligenza emotiva ma anche semplice buon senso.
La persona assertiva vive i cambiamenti, soprattutto quelli inevitabili o necessari, come opportunità per rimettersi in gioco. In sintesi, quali sono le caratteristiche per potersi definire assertivi? Le presento di seguito, specificandole in otto punti:
Da questo elenco, è facile intuire come l’assertività sia fondamentale per stabilire un rapporto positivo con noi stessi e con il mondo che ci circonda.
In particolare, è indispensabile per chi svolge attività professionali dove la relazione o i processi decisionali di gruppo rivestano un ruolo di primo piano.
Vediamo ora tre esempi di applicazione dell’assertività:
• Medico: sa ascoltare il paziente, tenendo conto delle sue paure e preoccupazioni.
Nel momento in cui gli parla, non adotta un linguaggio tecnico e incomprensibile ma opta per la chiarezza e la semplificazione.
Sa trasmettere affidabilità, attraverso le sue competenze e capacità relazionale.
Naturalmente, ragionando di assertività, possiamo considerare queste caratteristiche trasversali anche ad altre figure professionali.
Esploriamo ora le caratteristiche dei due estremi entro i quali viene modulato lo stile assertivo.
Stile di comunicazione e comportamento Passivo:
Le frasi tipiche o “schemi linguistici” dell’atteggiamento passivo sono:
Tale stile si caratterizza per una modalità relazionale che rinuncia a far valere i propri diritti, ad esprimere i propri sentimenti, a spiegare le proprie opinioni.
Il passivo tende a farsi trasportare dalle circostanze e a subire l’influenza altrui.
Il più delle volte riduce la propria contrarietà a sterili lamentele.
Tende a crearsi “alibi psicologici” per giustificare il suo mancato raggiungimento di un risultato: è colpa del mercato, della crisi, del cliente, della zona, del governo, del carattere del mio capo o del mio collega. Si esprime con poca chiarezza e con esitazione.
Stile di comunicazione e comportamento Aggressivo
Le frasi tipiche o “schemi linguistici” dell’atteggiamento aggressivo sono:
L’assertività rappresenta dunque il giusto mezzo tra opposti.
Aristotele, nell’Etica Nicomachea, opera del IV sec. a.C. (considerata il primo trattato di etica), dimostra come proprio nella capacità di trovare e “vivere” il giusto mezzo nei comportamenti e negli atteggiamenti risieda la virtù, che rappresenta la via maestra per raggiungere la felicità.
Molti punti del pensiero di Aristotele in quest’opera ci riportano all’assertività, come strada che permette di evitare l’atteggiamento passivo e quello aggressivo.
Ne cito due:
Da Aristotele in poi, il concetto di assertività è andato sviluppandosi e affinandosi in parallelo al processo di civilizzazione.
Plutarco , in un suo trattato, si rivolge a giovani che stanno finendo gli studi e si stanno avvicinando alla professione.
Un passaggio da sempre difficile, che Plutarco consiglia di affrontare con un elemento fondamentale: l’ascolto.
Lo ritiene la chiave per il successo, in quanto ci permette di avvicinarci agli altri, di capirne il loro punto di vista per poi poter proporre il nostro.
L’opera di Plutarco si intitola proprio “L’arte di ascoltare”.
Socrate ci offre più di un contributo.
Il suo “so di non sapere” distrugge l’aggressività che deriva dal ritenersi i migliori e al tempo stesso stimola la curiosità che annulla la passività.
La sua maieutica, mediante le domande poste con il fine della conoscenza, ci permette di capire di volta in volta quanto poco sappiamo nei diversi ambiti, e al tempo stesso di crescere.
Ci esorta a considerare un’idea in quanto tale, senza farci influenzare dallo status dell’interlocutore e ad esprimere il proprio punto di vista anche se diverso, portando solide argomentazioni.
Dante, come Aristotele, ci mostra nella sua “Commedia” la necessità del giusto mezzo.
Potremmo dire che identifichi l’aggressività nella violenza, la passività nell’ignavia, l’assertività nella libertà.
Leonardo da Vinci, attraverso le pagine del suo “Trattato della Pittura”, mediante il modello della “bottega”, esalta la capacità di lavorare in gruppo e di saper creare un clima positivo, favorevole all’apprendimento e al raggiungimento dell’obiettivo:
“Dico e confermo che ‘l disegnare in compagnia è molto meglio che solo, per molte ragioni”.
“Sì che sia vago con pazienzia udire l’altrui opinione; e considera bene e pensa bene se ‘l biasimatore ha cagione o no di biasimarti; e se trovi di sì racconcia, e se trovi di no, fa vista di non l’aver inteso; o se gli è omo che tu stimi, la ragione come lui s’inganna”.
Leonardo ritiene il dialogo importantissimo e il feedback fondamentale per migliorarsi.
Il processo di civilizzazione del Rinascimento dà un rilevante contributo all’assertività, soprattutto nel disciplinare norme e comportamenti su cui basare le relazioni interpersonali a diversi livelli e in diversi contesti.
Un altro importante passo in avanti avviene con l’Illuminismo, periodo in cui la capacità di argomentare un’idea e soprattutto di far rispettare i propri diritti, diviene centrale nelle dinamiche socio-culturali.
Ne è un esempio la celebre frase di Voltaire:
“Non sono d'accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”.
Italo Svevo ci mostra perfettamente l’atteggiamento passivo attraverso la figura dell’inetto, descritto nei suoi romanzi.
L’inetto lascia che siano gli altri a decidere per lui, tende a dire sempre di sì, a rinunciare alle proprie aspirazioni, a non esprimere i propri sentimenti, a non riuscire a realizzare i propri propositi.
I personaggi di Alberto Moravia nell’opera Gli indifferenti rappresentano l’antitesi dell’assertività, sempre in direzione della passività: totalmente incapaci di essere empatici e di costruire relazioni vere, si lasciano dominare dalle situazioni e dagli eventi della vita: la loro volontà non emerge mai. Tornando ai giorni nostri, per approfondire ulteriormente il tema dell’assertività, rimando allo studio di Roberto Anchisi e Mia Gambotto Dessy:
Manuale di assertività.
Teoria e pratica delle abilità relazionali: alla scoperta di sé e degli altri, Franco Angeli, 2013.
Gli autori sostengono che la pratica dell’assertività si esprima su cinque livelli.
Li ripropongo di seguito secondo la loro classificazione:
Con le considerazioni fatte sinora, mi auguro di essere riuscito a dare una buona panoramica sul concetto di assertività e su come questo si sia evoluto nella Storia.
Tale quadro di riferimento, così delineato, servirà a poter cogliere lo stretto legame che l’assertività ha con la scrittura, nei successivi capitoli del nostro libro. Intanto, per chi volesse approfondire il concetto di assertività, riporto altri suggerimenti bibliografici, arricchiti da una breve descrizione:
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