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In India, il termine “guru” indica un maestro spirituale o capo religioso ma anche, più in generale, un capo carismatico di un gruppo o movimento di persone.
Nel nostro contesto, invece, un guru è un personaggio che ha scritto importanti capitoli della storia del management e/o della formazione e presume di essere in grado di scrivere anche quelli futuri.
Credo, tuttavia, che la stagione d’oro dei guru – anni settanta/ottanta – sia ormai definitivamente tramontata.
Oggi siamo più o meno tutti in grado di fare delle riflessioni su quello che succede o potrà succedere nel mondo.
Grazie ad Internet, ognuno di noi ha la possibilità di accedere ad una tale mole di informazioni che non è più necessario pendere dalle labbra di un esperto per delineare scenari e tendenze; né tanto meno è utile partecipare a convegni nei quali si “ragiona” dei massimi sistemi o si gira a vuoto sui concetti con la retorica delle solite “frasi fatte” o con l’arcaico linguaggio delle ideologie.
Ormai, per fortuna, abbiamo tutto a portata di mouse.
Ho ascoltato diversi clienti lamentarsi dello scarso valore aggiunto di alcuni “guru” – professori universitari, esperti di contenuto, personaggi del mondo della politica e dell’economia – nel momento in cui sono intervenuti in azienda.
La loro presenza è costata molti soldi ed ha reso poco in termini di spendibilità dei contenuti nel quotidiano da parte degli astanti, rimanendo di fatto “molto al di sotto delle aspettative”.
“Ecco che in aula, nei workshop e in tanti altri riti dell’intervento formativo, dinnanzi all’esperto di turno, al messaggio preciso, alle tecniche innovative e agli inviti al cambiamento, le persone guardano disilluse ‘sacerdoti’ che promettono nuove redenzioni e che offrono prospettive globali, mentre esse cercano confini e limitazioni in cui contenere quel po’ che resta di se stessi”.
Così Antonio Payar descrive una situazione che possiamo indicare come l’ “effetto guru”.
Oggi le persone hanno estremamente bisogno di concretezza, semplicità, vicinanza.
La formazione, in questo senso, non può preoccuparsi di ragionare solo di competenze, cambiamento e competitività magari attraverso il “nome importante” di qualcuno o di qualche società di consulenza.
Come sostiene Payar, “Bisogna recuperare autenticità e riaprire il rapporto con le persone, vero polo etico dell’impresa. (…)
Dove c’è una persona c’è un luogo e c’è l’universo.
E’ nell’inferma coscienza del sé e dell’universale di cui ciascuno è portatore sano che la formazione deve compassionevolmente addentrarsi, se vuole poi di nuovo ex-ducere”.
Karl Krauss, alla fine dell’Ottocento, sosteneva che “Esistono più profeti che persone da salvare”.
Molto probabilmente, oggi abbiamo bisogno più di una dimensione della formazione che ci aiuti a ricostruire le nostre domande e a condividerle con chi ci è prossimo – non solo collega – piuttosto che ascoltare il “verbo” di qualcuno che somministra risposte preconfezionate, tra gli effetti speciali di un maxischermo e sorrisi posticci.
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