Articolo tratto dal libro:
"La montagna: una scuola di management. La determinazione del singolo e della squadra sono le chiavi del successo sul K2 come in azienda" di Agostino Da Polenza (Presidente Everest-K2-CNR) e Gianluca Gambirasio, FrancoAngeli 2008 |
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«C'è un solo tipo di successo: quello di fare della propria vita ciò che si desidera». Henry David Thoreau
Un luogo della natura eccezionalmente sorprendente e stimolante. Un mondo dove gli opposti tendono ad incontrarsi: l’orizzontale e il verticale, il caldo e il freddo, il bianco e il nero, il deserto e i grandi fiumi, il cielo e la terra.
È un luogo estremo in tutte le direzioni, anche quella umana. La sfida e la vita fanno ancora parte delle regole accettate per la conquista della vetta, ma la sicurezza è un valore; la fatica estrema può durare giorni ed è talvolta mortale, ma l’esaltazione della vetta dura pochi adrenalinici istanti; il tempo lento delle marce di avvicinamento, delle attese al campo base o in tenda ai campi alti ad ascoltare i teli della tendina sbattuta dal vento; si riassume nei brevi istanti dell’esplosione dei colori nitidi delle albe e dei tramonti, nell’odore metallico dell’aria gelida, nello spazio immenso e sempre stupefacente.
La gioia, la passione, la determinazione, il dolore, l’azione, la sconfitta e la vittoria, l’amicizia e la stima, la disperazione e l’esaltazione. Questa è la montagna.
Credo di avercela sempre avuta dentro. Una specie di imprinting genetico al verticale, all’eccezionale che ho coltivato con passione.
Fin da adolescente, quando le mie montagne erano quelle della bergamasca, i pascoli dell’Arera che per me diventavano le cime himalayane le cui creste, e pareti incontravo nei libri della biblioteca. Erano le raccolte della rivista mensile del CAI.
Banalmente tutto. Se ami un “mondo”, e che mondo quello della montagna, devi amare il buono e il cattivo, il bel tempo e la tempesta.
Da ragazzo non mi piacevano molto le lunghe camminate, la fatica un po’ bovina del passo dopo passo per ore, magari con uno zaino; mi annoiava. Volevo la meta, la cima, la “lotta con l’alpe”.
Più semplicemente preferivo l’adrenalina al sudore. Ma col tempo ho compreso che il sudore del cammino lento è il nutrimento del pensiero. Una forma di misticismo del pellegrinaggio, che certo non hanno inventato gli alpinisti.
Serve a comprendere l’azione che è la sintesi del processo di scelta e decisione, e quindi il risultato; l’estensione temporale e spaziale del camminare, oltre l’atto sportivo dell’arrampicare, è necessario come per un profumo la cui fragranza è compressa in una deliziosa bottiglietta di vetro, solo quando la liberi nell’aria se ne assapora il piacere.
Erano gli anni del liceo. Mio padre era un operaio tessile con moglie e tre figli a carico. Difficile sognare qualcosa in più delle gialle pagine degli annuari del Cai, delle avventure scritte da Cassin, Bonatti, Rebuffat, Comici, Aste, Piussi, dai “Ragni” e dagli “Scoiattoli”. Difficile comprendere il K2 se non come un’avventura alla Salgari.
Un sogno che rimane tale. Invece no! La Cornagera, si trovava sopra il villaggio di Amora, dove vivevano i miei nonni materni: la palestra di roccia dei migliori bergamaschi dell’epoca: Longo, Pellicioli, Bergamelli e Nembrini.
Facevo 20 chilometri a piedi per andarci il sabato e la domenica, mi allenavo con ossessione, su quei passaggi cercavo di capire il mio corpo, imparavo a muovermi. Diventava così meno difficile immaginarmi sulle cime degli annuari.
Finito il liceo mi sono iscritto ad architettura ma l’alpinismo ha avuto il sopravvento. Ho piantato lì e sono andato a lavorare. Abitavo a Gandino e lavoravo a Treviglio. Otto ore di lavoro legato su cisterne da dipingere o a spostar bombole di gas da 80 chili, e altre 6 di viaggio.
Ma la domenica andavo in Cornagera a sputare l’anima attaccato a quei bei sassi di calcare, Sicurezza e materiale scarsi. A 18 anni mia madre mi ha dato i soldi per fare il Corso di aspirante Guida alpina che superai.
Trovai i primi amici di arrampicata. Quasi tutti più vecchi di me: il Baracchetti, il Bresa.
I soldi per la mia prima spedizione al Puscanturpa, nelle Ande peruviane, me li ha dati mia madre: grande donna. Ma mio padre, appassionato sportivo, a cui la montagna piaceva proprioera il mio tifoso. Sciava da ragazzo.
Poi la mia vita si è svolta per qualche tempo tra il raccattar soldi e lo spenderli per fare alpinismo. Fino al militare. Sono finito a Portogruaro, sul mare vicino a Venezia, perchè alle visite mediche avevo per due anni successivi un ginocchio ingessato a causa di una caduta sugli sci prima, sul ghiaccio dopo.
A nulla valse la mia richiesta di andare nelle truppe alpine nonostante fossi già una guida. Anche se ancora aspirante.
Mi sbatterono come “scritturale” in riva al mare. Mi salvò un generale appassionato di montagna che, anziché montare la guardia, mi consentiva nei fine settimana di andare in Val Rosandra, vicino Trieste, ad arrampicare. Era la palestra di Comici ma anche di Cozzolino, nuovo mito dei giovani dell’arrampicata libera.
Ma tutti questi non erano veri sacrifici, erano semplicemente delle difficoltà da superare, delle opportunità per imparare.
Intanto l’ascensione devi sceglierla, deve poi appassionarti, sai che ti divertirai anche se ti impegnerà molto. Devi capirla,conoscerla. A volte la scelta è istintiva. La nostra esperienza fa scegliere, quasi per caso le pareti e le montagne che vogliamo salire.
Mi accadde per la via degli americani al Dru, nel gruppo del Monte Bianco, ma anche per quasi tutte le mie spedizioni alpinistiche. Dal Puscanturpa al K2. Ma quando l’hai scelta quella è la tua montagna, la tua sfida. Sai che finchè non arriverai sul metro più alto la sfida non sarà vinta.
Paradossalmente l’alpinismo ha sempre rifiutato formalmente delle regole del gioco, ma la sua attuazione totalmente condizionata dall’ambiente e dalla necessità di sopravvivere all’unico vero avversario dell’alpinista, vale a dire la legge di gravità, ha nel tempo prodotto un’esperienza, un’insieme di comportamenti, di gesti, una specie di “giurisprudenza” dell’alpinismo.
Ecco, è la conoscenza di tutto ciò che ti fa scegliere una montagna; a volte, come a me è capitato per il K2, potrebbe sembrare un innamoramento, il classico colpo di fulmine. Io credo che sia vero e a maggior ragione perché il K2 corrisponde a tutti i canoni perfetti ai quali io faccio riferimento quando penso all’alpinismo, alle montagne, alla natura, all’ingegno, alla scoperta e alla conquista.
La montagna perfetta. Per lei non si è mai preparati a sufficienza.
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