Articolo tratto dal libro:
"La montagna: una scuola di management. La determinazione del singolo e della squadra sono le chiavi del successo sul K2 come in azienda" di Agostino Da Polenza (Presidente Everest-K2-CNR) e Gianluca Gambirasio, FrancoAngeli 2008 |
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No, non ho mai dovuto rinunciare a uno o più componenti importanti durante una spedizione. Forse sono stato fortunato o forse le squadre che si formavano erano composte da ottimi e buoni elementi.
Certo, qualche defaillance in tanti anni c’è stata ma normalmente da parte di giovani non determinanti per il risultato, rimpiazzabili con una redistribuzione dei ruoli. Ho dovuto invece rinunciare ad avvalermi dell’esperienza, per esempio, di Gianni Calcagno che era stato con noi con il progetto Quota 8000 quando iniziammo il progetto Esprit d’Equipe.
Non vi aderì, probabilmente perché lo riteneva troppo spinto verso il mondo della comunicazione. Fu una grande perdita di esperienza che peraltro venne rimpiazzata dallo stesso Benoît Chamoux che, ancor giovane ma di un’intelligenza sorprendente e con un buon carisma, prese in mano la guida alpinistica del gruppo con ottimi risultati.
Se l’alpinismo è di squadra, com’è quello himalayano, l’individuo è molto importante per il risultato ma quasi mai insostituibile.
Incredibilmente Ardito Desio, tra gli italiani. Forse prima di lui il Duca degli Abruzzi. Dico incredibilmente per il molto tempo che è passato da quando loro agivano e perché penso alle polemiche che, proprio per questo suo ruolo, Ardito Desio si trascinò fino alla tomba, dopo la salita del K2 nel 1954.
Era però una persona scientifica e di carattere, nella scelta degli uomini scelse alcuni dei migliori alpinisti italiani dell’epoca, ebbe il coraggio di scegliere personalmente il più giovane, proprio lui: Walter Bonatti. Organizzò la sua spedizione nel migliore dei modi possibile, adottando tecniche e attrezzature assolutamente innovative.
La diresse e raggiunse l’obiettivo. Non era un alpinista e non aveva una specifica esperienza alpinistica, anche se sapeva cos’era una montagna e sapeva di tecnica di ghiaccio e salita. Forse questo ingenerò qualche problema nella tecnica di assalto alla vetta.
Ma il risultato, grazie alla sua conoscenza, metodo e tenacia, fors’anche cocciutaggine, che qualcuno, forse a ragione, definì alterigia da professore universitario, ottenne un grande risultato e questo francamente è quello che più conta.
Sembrerà opportunistica la risposta ma un vero capospedizione deve sapere, saper fare e saper far fare. In quanto al saper essere, se si intende essere autorevole, certo che sì. Perché attorno a lui si crea la squadra, lui è responsabile del bene e della riuscita di ognuno dei suoi uomini.
Della spedizione. Non c’è in gioco qualche soldo, l’ambizione o il successo, ma la vita. Anche se soldi, ambizioni e successo sono parte importante della vita. Lui è il mediatore al campo base che garantisce che il gioco vada a miglior fine.
Quelle di un buon alpinista e quelle di un manager. Quelle psicologiche del gestore di una squadra di uomini con i quali convive per parecchie settimane in uno stato di stress psicofisico elevato e di disagi. Deve essere capo e amico. Deve decidere e ascoltare il parere di tutti. Deve rispettare tutti e farsi rispettare. Facile a dirsi…
Autorevolezza, autorevolezza, autorevolezza. Se la squadra gliela riconosce, e con essa tutta la competenza necessaria al ruolo, vuol dire che ha i numeri per essere autorevole e farsi ascoltare. Amare i suoi uomini come figli o fratelli. Mettono la loro vita nelle sue mani. È il meno che possa fare.
Difficile delegare una funzione tanto delicata. A me è capitato al K2 nel 2004. Mia moglie stava morendo per un tumore. Mi aveva chiesto di stare al campo base con i miei ragazzi. Un gesto di abnegazione e di amore formidabile.
Abbandonai però il base verso la fine della spedizione e affidai a un caro amico di lunga esperienza la conduzione della spedizione. Non dopo essermi consultato con alcuni dei più fidati collaboratori.
Sul freddo ghiacciaio ascoltavo spegnersi la voce tremante della donna con cui avevo vissuto vent’anni e vedevo contemporaneamente negli occhi dei miei uomini la speranza di coronare con il successo mesi di impegno organizzativo e settimane di duro confronto con la montagna.
Ragionavo con sofferenze e cercai in quei giorni di giocare la più difficile partita della mia vita. Organizzai tutto affinché l’attacco alla vetta non potesse non svolgersi nelle migliori condizioni. Lasciai nelle mani dell’amico l’attuazione di quanto concordato.
Salii sull’elicottero e iniziai una folle corsa al capezzale di Silvana. L’elicottero non aveva ancora fatto in tempo a prendere quota che alcuni avevano pensato di modificare i piani condivisi.
Ma l’abbrivio al quale avevo portato la macchina, la fedeltà di qualcuno dei miei uomini e la loro fortissima motivazione e abnegazione, sentimenti sui quali sapevo di poter contare, portarono la spedizione in cima al K2 il 26 luglio del 2004.
Cinque giorni prima della scadenza del cinquantesimo. Due giorni dopo, la morte di Silvana. Ma lo sapevamo, Silvana ed io, che ce l’avrebbero fatta.
Autorevolezza e senso di responsabilità. Capacità di farsi ascoltare e ubbidire ma anche disponibilità ad ascoltare tutti, capacità di decidere per tutti e per il meglio di ognuno. La sincerità, la disponibilità e la comprensione che però non devono mai prevalere sul buon senso.
Decidere di essere un ottimo alpinista che rinuncia a salire e che invece assume la responsabilità di organizzare e dirigere un gruppo di alpinisti che gli affidano la possibilità di successo e, in parte, la loro sicurezza.
È molto più difficile la prima ipotesi e anche più rischiosa. L’allenatore, il direttore tecnico, sta al bordo del campo. Deve avere una visione esterna, globale del campo di gioco. Può nominare un capitano che sta in campo, ma questo è un altro ruolo.
Parliamo dal campo base in su, ovviamente. Certamente, man mano ci si avvicina alla vetta le criticità diventano molte. Un alpinista che sta male e bisogna soccorrerlo ed evacuarlo. Un cambiamento repentino di tempo, una bufera improvvisa.
Ma anche un cambio previsto di meteo richiede una strategia di discesa. L’organizzazione dei campi, che devono essere attrezzati al meglio per la salita, ma anche per garantire la discesa.
Gli sherpa, quando questi ci sono, e il rapporto con le altre spedizioni possono rappresentare momenti di criticità. Spesso gli sherpa portano in alto quello che vogliono e quando vogliono.
Altre spedizioni possono intralciare il percorso, mettere le loro tende nelle uniche piazzole disponibili in un campo rendendo difficile piazzarne altre, c’è poi il problema dell’uso non autorizzato delle tende e del materiale da parte di altre spedizioni, il furto dello stesso, la necessità di soccorrere altri alpinisti o sherpa.
Una cosa importante è saper ascoltare la ricetrasmittente. Capire, attraverso la voce, le condizioni fisiche e psicologiche, l’umore e il morale dei ragazzi in parete. Incoraggiarli o dissuaderli.
Esperienza, capacità di analisi, naso e fortuna.
Devono essere le loro regole, quelle condivise. La strada che poi porta al campo base è la stessa che ci riporta a casa, chi l’ha salita può in ogni momento scenderla. Se ritiene di non poter rispettare le regole è bene se ne vada.
Solo una volta, come ho già raccontato, ho allontanato un alpinista dal campo base. Si è arrabbiato con me per due anni, poi ha capito che era per il suo bene e per quello degli altri. Una moral suasion è l’arma migliore.
Quando ci sono difficoltà con una persona o con alcuni cerco di parlarne con grande trasparenza e realismo, di affrontare il problema cercando soluzioni. Ma tutti sanno che il capospedizione è quello che decide come il comandante della nave.
Se necessario anche di sanzionare atteggiamenti e, in caso di estrema gravità e pericolosità, anche allontanando i soggetti o interrompendo la spedizione.
Non ho mai vissuto una rottura grave tra i componenti di una delle mie spedizioni. Ma questo certamente è perché le criticità sono sempre state disinnescate prima che diventassero insanabili conflitti. Ricordo durante il progetto Quota 8000, al K2 e Broad Peak.
Faccio un esempio in positivo: dovevamo salire la Magic Line sul K2. Alcuni degli alpinisti andarono a farsi l’allenamento sul Broad, che peraltro salirono. Noi, con Benoît, Gianni e Tullio ce ne andammo sulla bellissima e durissima Magic Line; rinunciammo di lì a pochi giorni a causa di un grave incidente mortale occorso a due ragazzi americani travolti da una grande valanga vicino a noi. Ce ne andammo su per lo Sperone Abruzzi, la via del 1954.
Io rinunciai e rimasi al base a fare il capo spedizione. Cinque dei miei compagni salirono la cima del K2, alcuni dopo il Broad, e consentirono a Benoît di tentare e realizzare il record di velocità della salita senza ossigeno del K2.
Tutto questo programma, costruito mentre la spedizione si svolgeva e in base al tempo, alle vicissitudini e anche alle disgrazie, che quell’anno furono molte, avrebbe potuto generare forti tensioni e contrasti per il conflitto tra gli interessi di tutti e quelli particolari di ognuno. Fu invece splendido trovare l’equilibrio del gioco e, con esso, la soddisfazione generale e di ognuno.
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